19 maggio 2012

Assegno divorzile: la nozione di adeguatezza dei mezzi postula un esame comparativo dei redditi dei coniugi


La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5877 depositata il 13 aprile 2012, ha ribadito che il giudice, chiamato a decidere sull'attribuzione dell'assegno di divorzio, è tenuto a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza - all'atto della decisione - dei mezzi o all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio.

Pertanto, è la nozione di adeguatezza a postulare un esame comparativo della situazione reddituale e patrimoniale attuale del richiedente con quella della famiglia all'epoca della cessazione della convivenza, che tenga altresì conto dei miglioramenti della condizione finanziaria dell'onerato, anche se successivi alla cessazione della convivenza, i quali costituiscano sviluppi naturali e prevedibili dell'attività svolta durante il matrimonio.

10 maggio 2012

Reato di maltrattamenti in famiglia escluso se il marito ha comportamenti aggressivi al sol fine di scuotere la moglie depressa


Il marito poneva in essere dei comportamenti aggressivi nei confronti della moglie, da tempo affetta da una grave forma di depressione post-partum, al fine di scatenare nella stessa una reazione che tardava a presentarsi. Il Tribunale e la Corte d’Appello, tuttavia, ritenevano che tale condotta integrasse gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’articolo 572 del codice penale.

L’imputato ricorreva in Cassazione, da una parte, eccependo violazione di legge per aver il giudice ritenuto la responsabilità sulla base delle dichiarazioni della sola parte lesa, costituitasi parte civile, in assenza di ulteriori riscontri, dall’altra, contestando la sussistenza, sul piano soggettivo, del reato di maltrattamenti in famiglia, escluso in relazione alle dinamiche familiari, fortemente condizionate dai problemi di natura depressiva della donna.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15680 del 23 aprile 2012, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha innanzitutto ricordato che il delitto di maltrattamenti in famiglia presuppone l’accertamento di una condotta abituale, volta a creare una condizione di soggezione ed asservimento della persona di famiglia, finalità che deve essere consapevolmente avuta di mira dall’autore nello svolgimento di tale pratica sopraffattrice. In particolare, se pure non è richiesto il dolo specifico, la condotta rilevante deve essere caratterizzata nell’agente dalla coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa ad uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza.

Ciò detto, sulla scorta delle prove assunte, è dato certo, a parere della Corte, che l’intero nucleo familiare fosse costretto a vivere in una situazione di continua tensione a causa della forma depressiva che ha colpito la moglie dell’imputato. E’ pacifico, altresì, che la causa scatenante di tale patologia  sia stata l’evento parto, cui è seguito un progressivo allontanamento della donna dalla realtà e la chiusura in sé stessa.

Parimenti non v’è dubbio che, sulla base delle prove assunte, il comportamento del marito sia frequentemente sfociato in comportamenti aggressivi, di natura materiale o morale, ma non risulta accertato se tale condotta sia stata generata da una reazione, sia pur impropria, volta a cercare di scuotere la moglie dal torpore e dalla mancanza di iniziativa ed interesse nella quale risulta essere stata relegata per effetto della patologia, o sia stata determinata dalla volontà di indurla in una situazione di costante soggezione.

Tale accertamento risulta imprescindibile in ragione della stessa specifica contestazione formulata a carico del ricorrente, che individua le caratteristiche e finalità della condotta illecita a lui attribuita proprio nella creazione di una costante situazione di timore che avrebbe indotto l’interessata a sottoporsi alla psicoterapie, quale effetto di tali maltrattamenti, situazione di fatto, al contrario, non sufficientemente riscontrata nel concreto, che ben potrebbe essere diversamente correlata alla situazione patologica nella quale la donna si trovava a vivere.
Ciò comporta un difetto di motivazione su un punto essenziale al fine dell’accertamento di responsabilità del reato contestato, caratterizzato dall’imposizione di un regime di vita vessatorio finalizzato a mortificare la personalità della vittima e ad ostacolare il naturale sviluppo della sua personalità, che permette di tipizzare il reato in esame, consentendo di differenziare la sua rilevanza giuridica rispetto al significato dei singoli comportamenti aggressivi, che, in difetto dell’abitualità correlata alla volontà prevaricatrice, devono essere inquadrati nei diversi delitti di lesione, ingiuria, e minacce.

   

9 maggio 2012

Falsifica la relata di notifica di una cartella esattoriale? è reato di falso!


Falsificava la data sulla relata di notifica di una cartella esattoriale relativa ad infrazioni al codice della strada allo scopo di rendere possibile e tempestiva l’opposizione dinanzi al Giudice di Pace, che altrimenti sarebbe stata tardiva. La Corte di Appello di Napoli, investita del gravame avverso la sentenza di primo grado, confermava la condanna dell’imputato per il reato di falso.

L’imputato ricorreva in Cassazione sostenendo che, una volta accertato il falso, il medesimo aveva immediatamente rinunciato all’opposizione instaurata dinanzi al Giudice di Pace, pagando l’imposta: tale comportamento avrebbe dovuto essere valutato, ai sensi del terzo e quarto comma dell’art. 56 del codice penale, in guisa di desistenza volontaria o di recesso attivo.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15971 del 26 aprile 2012, rigettando il ricorso dell’imputato, ha rilevato che il reato di falso, come con puntuale argomentazione ha rilevato la corte territoriale, era stato compiutamente realizzato con l’alterazione della data della notificazione originariamente apposta dall’ufficiale giudiziario, di modo che il fatto integrava certamente la fattispecie incriminatrice contestata, atteso che, come ha rilevato la corte territoriale, l’alterazione non era grossolana ed evidente, tanto che era stata rilevata dal Giudice di Pace solo dopo l’acquisizione dell’originale, disposta a seguito dell’eccezione di tardività dell’opposizione proposta dall’esattoria.

Sulla struttura del reato poi nel caso di specie non ha influenza alcuna, secondo il Collegio, l’asserita rinuncia al giudizio di opposizione pendente dinanzi al giudice di pace, elemento fattuale che non costituisce ipotesi di desistenza volontaria, che si sarebbe verificata ove l’agente avesse rinunciato a detto giudizio, già pendente, prima che l’esattoria avesse eccepito la tardività dell’opposizione, inducendo il Giudice di pace all’acquisizione dell’originale ed alla constatazione del falso.

Né il successivo pagamento dell’imposta può integrare un’ipotesi di recesso attivo, essendo intervenuto quando il reato era stato compiutamente posto in essere in tutti i suoi elementi costitutivi, e l’assoluzione dell’obbligazione tributaria aveva il solo scopo di evitare ulteriori pregiudizi dopo che la contraffazione era stata scoperta.

La circostanza aggravante di abuso di prestazione d’opera è incompatibile con i reati colposi!


Esercitava abusivamente la professione medica con la falsa qualifica di dottoressa, così arrecando delle lesioni agli ignari pazienti. Il Tribunale di Roma condannava l’imputata per i delitti di truffa, lesioni colpose ed abusivo esercizio della professione. La Corte d’Appello della medesima città, investita del gravame dell’imputata, confermava la decisione del Tribunale, ma rideterminava la pena inflitta per i suddetti reati.

L’imputata ricorreva in Cassazione sollevando difetto di motivazione e violazione di legge in relazione all’art. 61, n. 11, c.p., per avere la Corte territoriale affermato la sussistenza dell’aggravante dell’abuso di prestazione d’opera senza avvedersi dell’incompatibilità logica tra l’aggravante stessa (che presuppone un atteggiamento mentale doloso, concretizzantesi nell’abuso) e la natura colposa del reato di lesioni ascritto.

La Corte di Cassazione con sentenza n. 15463 del 23 aprile 2012, accogliendo il ricorso dell’imputata, ha rilevato che l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera non può caratterizzare il delitto di lesioni colpose. L’aver agito arrecando lesioni a titolo di semplice colpa, secondo il Collegio, non è compatibile con la circostanza aggravante dell’abuso della prestazione d’opera, non potendosi plausibilmente innestare sopra una condotta colposa una circostanza aggravante costituita da un atteggiamento abusivo; ossia da un atteggiamento mentale doloso, nel caso concreto volto ad approfittare di un rapporto di fiducia non meramente occasionale o estemporaneo.  Pertanto, poiché il trattamento sanzionatorio è stato determinato computando l’aggravante con riguardo anche al delitto di lesioni colpose, la sentenza impugnata è stata annulla dalla Cassazione, con rinvio per la rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

8 maggio 2012

Cassazione Sezioni Unite n.11545 23 marzo 2012 esercizio abusivo di una professione ed ambito di applicazione della fattispecie


IL CASO

Il Tribunale di Milano dichiarava l’imputato responsabile dei reati, ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione, di truffa aggravata di cui agli artt. 640 e 61 n. 11 c.p. (capo a), falsità materiale commessa da privato ex artt. 482 e 476 c.p. (capo b), e abusivo esercizio di una professione ex art. 348 c.p. (capo c), perché, con artifizi e raggiri consistiti nello spacciarsi per dottore commercialista e nel formare e presentare falsi certificati attestanti il versamento degli importi dovuti (oltre a un falso relativo alla presentazione di una domanda di accertamento di invalidità civile), e nell'ottenere conseguentemente da alcuni venditori ambulanti, così indotti in errore, l'incarico, abusivamente svolto, di tenere la contabilità e provvedere alle dichiarazioni e ai pagamenti relativi ai vari tributi dovuti (e ai contributi previdenziali per l'attività autonoma), e la consegna di somme da versare a tali titoli, tratteneva per sé tali somme, così realizzando un ingiusto profitto, con relativo danno per le parti lese. La Corte di Appello di Milano, investita del gravame dell’imputato, confermava la pronuncia del Tribunale.

L’imputato ricorreva in Cassazione, deducendo erronea applicazione della legge penale in ordine a tutti i reati ascritti.
Relativamente al reato di abusivo esercizio di una professione di cui all’art. 348 c.p., rilevava in particolare che:
- tale norma deve correttamente essere interpretata nel senso che punisce solo lo svolgimento di attività riservate in via esclusiva a una determinata professione;
- anche seguendo l'orientamento giurisprudenziale, sposato dai giudici di merito, secondo il quale anche gli atti non riservati ma caratteristici della professione rilevano ai fini della configurazione del reato de quo, purché svolti in modo continuativo e organizzato, la Corte di merito non ha tenuto conto dell'esigenza di tale condizione aggiuntiva.

Denunciava, altresì, vizi di motivazione, in primo luogo, in ordine alla riconduzione delle condotte dell'imputato alla nozione di atti caratteristici dell'ambito professionale del commercialista.

Alla stregua degli atti di causa, infatti, egli sarebbe risultato in realtà un tuttofare, che solo incidentalmente avrebbe posto in essere sporadiche attività fra quelle descritte nella prima parte del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, art. 1: andava a prendere il lavoro direttamente presso i mercati all'aperto ove il F. lavorava, ricevendone in cambio somme modeste ed occasionali regalie consistenti in maglieria intima; indicava quale proprio indirizzo non quello di uno studio professionale, come sostenuto, ma solo quello di casa propria, un'abitazione senza una targa che lo indicasse come commercialista, sprovvista di una segreteria o di altri elementi caratteristici di uno studio professionale. Il giudice, sia in primo grado che in appello, non avrebbe fornito spiegazioni su come l'abitazione privata fosse diventata il centro nevralgico di un'attività organizzata, continuativa e professionale.

IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE

La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale sulla determinazione dell'ambito applicativo del reato di abusivo esercizio di una professione di cui all' art. 348 c.p.. Si distinguevano:
- un primo orientamento, che circoscrive l’applicabilità della fattispecie penale in oggetto allo svolgimento delle attività specificamente riservate da un'apposita norma a una determinata professione;
- un secondo orientamento che, nel distinguere tra atti "tipici" della professione ed atti "caratteristici", strumentalmente connessi ai primi, precisa che questi ultimi rilevano solo se vengano compiuti in modo continuativo e professionale "in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per il quale è richiesta l'iscrizione nel relativo albo".

LA SOLUZIONE DELLE SEZIONI UNITE

Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza n. 11545 depositata il 23 marzo 2012, nel risolvere il contrasto giurisprudenziale sorto in seno alle Sezioni semplici, sono pervenute ad affermare il principio di diritto secondo cui:
“concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c.p., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
Ciò detto, secondo la Suprema Corte: “Le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale, quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR nn. 1067 e 1068 del 1953, anche se svolte – da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali - in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione; a opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve invece pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddescritte, nel vigore del nuovo D.Lgs n. 139 del 2005”.

Trasponendo tali valutazioni al caso di specie, la Cassazione, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’imputazione per il reato di esercizio abusivo della professione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in quanto le attività ascritte all’imputato non erano incluse nelle positive elencazioni di quelle considerate di particolare competenza della professione di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale a sensi dei dd.PP.RR nn. 1067 e 1068 del 1953, vigenti all’epoca dei fatti. Esse, quindi, restano del tutto fuori del campo di applicabilità dell’art. 348 cod. pen., quand’anche connotate dai caratteri dì continuatività, onerosità e organizzazione.

Opposizione a decreto ingiuntivo e compensazione delle spese di lite


Una condomina proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale il Giudice di Pace di Roma le aveva intimato il pagamento delle quote condominiali non versate in favore del Condominio, deducendo di non aver ricevuto il verbale assembleare e le relative convocazioni concernenti l’approvazione delle menzionate quote, nonché i documenti giustificativi delle spese condominiali dovute. Si costituiva l’amministratore di condominio chiedendo il rigetto dell’opposizione; deduceva l’infondatezza delle deduzioni avversarie e chiedeva in via riconvenzionale il pagamento di una somma a titolo di maggior danno. Il Giudice di Pace adito rigettava l’opposizione ritenendola infondata, condannando la condomina al pagamento delle spese del giudizio.

Avverso tale decisione ricorreva in appello la condomina, riproponendo le domande ed eccezioni già formulate e chiedendo la condanna del Condominio alla restituzione dell’importo che aveva dovuto nel frattempo corrispondere a fronte della pronuncia di primo grado e del relativo precetto. Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento dell’impugnazione, revocava il decreto ingiuntivo opposto in considerazione del fatto che la condomina aveva comunque pagato in epoca successiva alla notificazione del provvedimento monitorio e del relativo precetto la minor somma dovuta a titolo di oneri condominiali come da lei stessa riconosciuto. Il Tribunale, inoltre, riformava la decisione per quanto riguardava le spese liquidate nel decreto e nel precetto, attesa la notevole discrasia tra gli importi richiesti in via stragiudiziale con sollecito (Euro 1.105,67) e quelli con il provvedimento monitorio (Euro 667,27), per cui condannava il Condominio a restituire all’appellante la somma di Euro 1.961,36, con gli interessi legali dalla data dell’esborso; compensava le spese del doppio grado in ragione di 1/2 ponendo la residua metà che liquidava, a carico della condomina.

Quest’ultima, tuttavia, ricorreva in Cassazione deducendo la violazione dell’art. 91 c.p.c. in quanto era stata posta a carico della “parte totalmente vittoriosa” una quota delle spese processuali, nonché la violazione dell’art. 92 c.p.c. per l’arbitraria e immotivata compensazione parziale delle spese legali liquidate in sentenza.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6616 del 30 aprile 2012, ha osservato che le doglianze in oggetto partono tutte da un presupposto erroneo e cioè che la condomina possa ritenersi “parte totalmente vittoriosa”. Nella fattispecie, infatti, la ricorrente non può ritenersi totalmente vittoriosa in quanto è stata costretta comunque a corrispondere al Condominio una parte della somma ingiunta pari agli oneri condominiali che erano effettivamente dovuti, come riconosciuto dalla stessa.

Al riguardo, proprio la Corte di Legittimità  ha sancito che: “nel procedimento per decreto ingiuntivo, la fase che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto, non costituisce un processo autonomo rispetto a quello che si apre con l’opposizione, ma da luogo ad un unico giudizio, nel quale il regolamento delle spese processuali, che deve accompagnare la sentenza con cui è definito, va effettuato in base all’esito della lite: ne consegue che, ove la somma chiesta con il ricorso sia riconosciuta solo parzialmente dovuta, non contrasta con gli artt. 91 e 92 c.p.c. la pronuncia di parziale compensazione delle spese processuali, in quanto l’iniziativa processuale dell’opponente, pur rivelandosi necessaria alla sua difesa, non ha avuto un esito totalmente vittorioso, così come quella dell’opposto, che ha dovuto ricorrere al giudice per ottenere il pagamento della parte che gli è riconosciuta” (Cass.Civ. n. 19120 del 3 settembre 2009).

In ordine alla valutazione dell’opportunità della compensazione totale o parziale delle spese, la Corte ha ricordato che essa rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito.

7 maggio 2012

Reato di peculato usare l'ambulanza di servizio per andare al matrimonio di un amico


Due operatori sanitari del servizio 118 presso l’ASL utilizzavano l’ambulanza di servizio per recarsi al matrimonio di un collega. Il Tribunale di Chieti dichiarava gli imputati colpevoli dei reati di concorso in peculato (per l’utilizzo della vettura di servizio) e truffa (per aver percepito l’intera retribuzione giornaliera, anche per l’attività lavorativa non prestata) e li condannava alla pena di mesi due giorni venti di reclusione, nonchè al pagamento di euro 800,00 di multa ciascuno, oltre al risarcimento del danno alla costituita parte civile.

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza impugnata, assolveva entrambi gli imputati, perché il fatto non costituisce reato, dal reato di truffa e rideterminava la pena per il residuo reato di peculato, stante il concorso dell’attenuante di cui all’art. 323 bis c.p.. In particolare, la Corte territoriale condivideva i rilievi e le argomentazioni del giudice di primo grado a conferma del giudizio di colpevolezza, non dubitando della sussistenza del peculato d’uso sotto il duplice profilo dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo del reato, ritenendo irrilevante che l’utilizzo indebito dell’ambulanza si fosse protratto per poco più di mezzora.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 16092 del 27 aprile 2012 ha ricordato che in tema di uso di auto di servizio la giurisprudenza è ormai orientata al principio secondo cui non è configurabile il reato di peculato d’uso nell’utilizzo episodico e occasionale dell’auto di servizio solo quando la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della P.A. e non abbia causato un danno patrimoniale in relazione all’utilizzo del carburante e dell’energia lavorativa degli autisti addetti alla guida.

A tale principio la corte di merito si è adeguata nel caso in esame, dando conto con puntuale e adeguato apparato argomentativo, della sussistenza dell’ipotesi criminosa contestata, enunciando analiticamente gli elementi e le circostanze di fatto convergenti e rilevanti a tal fine, sicché la motivazione non appare sindacabile in sede di controllo di legittimità, soprattutto quando i ricorrenti si limitano sostanzialmente a sollecitare un non consentito riesame del merito attraverso la rilettura del materiale probatorio.
 

La capacità di succedere del figlio non ancora concepito è limitata alla successione testamentaria


L’anziano nonno moriva senza lasciare testamento. Aperta la successione, gli eredi legittimi rinunciavano all’eredità del de cuius. Dopo quasi dieci anni, una delle eredi, che a suo tempo aveva rinunciato a succedere, rivendicava l’eredità per la propria figlia appena nata! A tal fine, i genitori della piccola agivano in giudizio, in qualità di rappresentanti legali, rivendicando il diritto della loro figlia a vedersi riconosciuta la proprietà della tenuta agricola con sovrastanti fabbricati, che nel frattempo era stata venduta dal curatore dell’eredità giacente. Il Tribunale, all’esito del giudizio, rigettava la domanda in quanto la minore non era stata neppure concepita all’epoca della morte del nonno, essendo nata dopo circa dieci anni dall’apertura della successione.

La questione passava all’attenzione della Corte d’Appello, la quale, rigettando il gravame dei soccombenti, rilevava che la capacità di succedere dei figli non ancora concepiti vale soltanto per chi sia stato designato dal tastatore, ma nella specie la piccola non era stata designata erede testamentaria dal nonno.
I genitori ricorrevano in Cassazione e denunciavano violazione e falsa applicazione dell’ art. 462, terzo comma, cod. civ., ponevano il quesito se il nascituro figlio dell’istituito erede per testamento rinunciante all’eredità, sebbene non ancora concepito all’apertura della successione, sia fin dalla nascita capace di succedere al defunto nonno, non essendo ancora decorso il termine decennale di prescrizione a causa della minore età.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4261 del 22 marzo 2012, rigettando il ricorso, ha rilevato che, a differenza del concepito, il quale ha una capacità di succedere generale ed, essendo abilitato a ricevere non solo per testamento, è un potenziale destinatario anche della vocazione ex lege (art. 462, primo comma, cod. civ.), il nascituro non ancora concepito ha una capacità di succedere limitata al campo della successione testamentaria, giacché il codice (art. 462, terzo comma) ammette che “i figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti” possano rendersi destinatari di un’attribuzione mortis causa soltanto a fronte di una espressa volontà testamentaria che li contempli.

E poiché il diritto a succedere di chi viene all’eredità secondo l’istituto della rappresentazione - con cui si realizza il subingresso legale del rappresentante nel luogo e nel grado dell’ascendente rappresentato in tutti i casi in cui questi non possa o non voglia accettare l’eredità - ha carattere originario e deriva direttamente dalla legge, deve escludersi che chi non è ancora concepito al momento dell’apertura della successione, il quale è privo della capacità di rendersi potenziale destinatario della successione ex lege del de cuius, possa succedere per rappresentazione, essendo necessario, affinché operi la vocazione indiretta, che il discendente, in quel momento, sia già nato o almeno concepito.

Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha escluso che la piccola avesse capacità di succedere, non essendo ancora concepita al tempo della morte del nonno e non essendo stata istituita erede con il testamento dallo stesso redatto.