IL CASO
Il Tribunale di Milano dichiarava l’imputato responsabile dei reati, ritenuti avvinti dal vincolo della continuazione, di truffa aggravata di cui agli artt. 640 e 61 n. 11 c.p. (capo a), falsità materiale commessa da privato ex artt. 482 e 476 c.p. (capo b), e abusivo esercizio di una professione ex art. 348 c.p. (capo c), perché, con artifizi e raggiri consistiti nello spacciarsi per dottore commercialista e nel formare e presentare falsi certificati attestanti il versamento degli importi dovuti (oltre a un falso relativo alla presentazione di una domanda di accertamento di invalidità civile), e nell'ottenere conseguentemente da alcuni venditori ambulanti, così indotti in errore, l'incarico, abusivamente svolto, di tenere la contabilità e provvedere alle dichiarazioni e ai pagamenti relativi ai vari tributi dovuti (e ai contributi previdenziali per l'attività autonoma), e la consegna di somme da versare a tali titoli, tratteneva per sé tali somme, così realizzando un ingiusto profitto, con relativo danno per le parti lese. La Corte di Appello di Milano, investita del gravame dell’imputato, confermava la pronuncia del Tribunale.
L’imputato ricorreva in Cassazione, deducendo erronea applicazione della legge penale in ordine a tutti i reati ascritti.
Relativamente al reato di
abusivo esercizio di una professione di cui all’
art. 348 c.p., rilevava in particolare che:
- tale norma deve correttamente essere interpretata nel senso che punisce solo lo svolgimento di attività riservate in via esclusiva a una determinata professione;
- anche seguendo l'orientamento giurisprudenziale, sposato dai giudici di merito, secondo il quale anche gli atti non riservati ma caratteristici della professione rilevano ai fini della configurazione del reato de quo, purché svolti in modo continuativo e organizzato, la Corte di merito non ha tenuto conto dell'esigenza di tale condizione aggiuntiva.
Denunciava, altresì, vizi di motivazione, in primo luogo, in ordine alla riconduzione delle condotte dell'imputato alla nozione di atti caratteristici dell'ambito professionale del commercialista.
Alla stregua degli atti di causa, infatti, egli sarebbe risultato in realtà un tuttofare, che solo incidentalmente avrebbe posto in essere sporadiche attività fra quelle descritte nella prima parte del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, art. 1: andava a prendere il lavoro direttamente presso i mercati all'aperto ove il F. lavorava, ricevendone in cambio somme modeste ed occasionali regalie consistenti in maglieria intima; indicava quale proprio indirizzo non quello di uno studio professionale, come sostenuto, ma solo quello di casa propria, un'abitazione senza una targa che lo indicasse come commercialista, sprovvista di una segreteria o di altri elementi caratteristici di uno studio professionale. Il giudice, sia in primo grado che in appello, non avrebbe fornito spiegazioni su come l'abitazione privata fosse diventata il centro nevralgico di un'attività organizzata, continuativa e professionale.
IL CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE
La Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, rilevando l'esistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale sulla determinazione dell'ambito applicativo del reato di abusivo esercizio di una professione di cui all' art. 348 c.p.. Si distinguevano:
- un primo orientamento, che circoscrive l’applicabilità della fattispecie penale in oggetto allo svolgimento delle attività specificamente riservate da un'apposita norma a una determinata professione;
- un secondo orientamento che, nel distinguere tra atti "tipici" della professione ed atti "caratteristici", strumentalmente connessi ai primi, precisa che questi ultimi rilevano solo se vengano compiuti in modo continuativo e professionale "in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per il quale è richiesta l'iscrizione nel relativo albo".
LA SOLUZIONE DELLE SEZIONI UNITE
Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza n. 11545 depositata il 23 marzo 2012, nel risolvere il contrasto giurisprudenziale sorto in seno alle Sezioni semplici, sono pervenute ad affermare il principio di diritto secondo cui:
“concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c.p., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato”.
Ciò detto, secondo la Suprema Corte: “Le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale, quali disciplinate, rispettivamente, dai dd.PP.RR nn. 1067 e 1068 del 1953, anche se svolte – da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali - in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione; a opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve invece pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche suddescritte, nel vigore del nuovo D.Lgs n. 139 del 2005”.
Trasponendo tali valutazioni al caso di specie, la Cassazione, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente all’imputazione per il reato di esercizio abusivo della professione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in quanto le attività ascritte all’imputato non erano incluse nelle positive elencazioni di quelle considerate di particolare competenza della professione di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale a sensi dei dd.PP.RR nn. 1067 e 1068 del 1953, vigenti all’epoca dei fatti. Esse, quindi, restano del tutto fuori del campo di applicabilità dell’art. 348 cod. pen., quand’anche connotate dai caratteri dì continuatività, onerosità e organizzazione.