10 maggio 2012

Reato di maltrattamenti in famiglia escluso se il marito ha comportamenti aggressivi al sol fine di scuotere la moglie depressa


Il marito poneva in essere dei comportamenti aggressivi nei confronti della moglie, da tempo affetta da una grave forma di depressione post-partum, al fine di scatenare nella stessa una reazione che tardava a presentarsi. Il Tribunale e la Corte d’Appello, tuttavia, ritenevano che tale condotta integrasse gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia previsto dall’articolo 572 del codice penale.

L’imputato ricorreva in Cassazione, da una parte, eccependo violazione di legge per aver il giudice ritenuto la responsabilità sulla base delle dichiarazioni della sola parte lesa, costituitasi parte civile, in assenza di ulteriori riscontri, dall’altra, contestando la sussistenza, sul piano soggettivo, del reato di maltrattamenti in famiglia, escluso in relazione alle dinamiche familiari, fortemente condizionate dai problemi di natura depressiva della donna.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 15680 del 23 aprile 2012, accogliendo il ricorso dell’imputato, ha innanzitutto ricordato che il delitto di maltrattamenti in famiglia presuppone l’accertamento di una condotta abituale, volta a creare una condizione di soggezione ed asservimento della persona di famiglia, finalità che deve essere consapevolmente avuta di mira dall’autore nello svolgimento di tale pratica sopraffattrice. In particolare, se pure non è richiesto il dolo specifico, la condotta rilevante deve essere caratterizzata nell’agente dalla coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa ad uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza.

Ciò detto, sulla scorta delle prove assunte, è dato certo, a parere della Corte, che l’intero nucleo familiare fosse costretto a vivere in una situazione di continua tensione a causa della forma depressiva che ha colpito la moglie dell’imputato. E’ pacifico, altresì, che la causa scatenante di tale patologia  sia stata l’evento parto, cui è seguito un progressivo allontanamento della donna dalla realtà e la chiusura in sé stessa.

Parimenti non v’è dubbio che, sulla base delle prove assunte, il comportamento del marito sia frequentemente sfociato in comportamenti aggressivi, di natura materiale o morale, ma non risulta accertato se tale condotta sia stata generata da una reazione, sia pur impropria, volta a cercare di scuotere la moglie dal torpore e dalla mancanza di iniziativa ed interesse nella quale risulta essere stata relegata per effetto della patologia, o sia stata determinata dalla volontà di indurla in una situazione di costante soggezione.

Tale accertamento risulta imprescindibile in ragione della stessa specifica contestazione formulata a carico del ricorrente, che individua le caratteristiche e finalità della condotta illecita a lui attribuita proprio nella creazione di una costante situazione di timore che avrebbe indotto l’interessata a sottoporsi alla psicoterapie, quale effetto di tali maltrattamenti, situazione di fatto, al contrario, non sufficientemente riscontrata nel concreto, che ben potrebbe essere diversamente correlata alla situazione patologica nella quale la donna si trovava a vivere.
Ciò comporta un difetto di motivazione su un punto essenziale al fine dell’accertamento di responsabilità del reato contestato, caratterizzato dall’imposizione di un regime di vita vessatorio finalizzato a mortificare la personalità della vittima e ad ostacolare il naturale sviluppo della sua personalità, che permette di tipizzare il reato in esame, consentendo di differenziare la sua rilevanza giuridica rispetto al significato dei singoli comportamenti aggressivi, che, in difetto dell’abitualità correlata alla volontà prevaricatrice, devono essere inquadrati nei diversi delitti di lesione, ingiuria, e minacce.

   

Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, 23 aprile 2012, n. 15680

Ritenuto in fatto
1. La difesa di E.F. propone ricorso avverso la sentenza del 16/10/2009 della Corte d’appello di Trento che ha confermato la pronuncia di condanna del giudice di primo grado per il reato di maltrattamenti in famiglia.
Si eccepisce con il primo motivo violazione di legge per aver il giudice ritenuto la responsabilità sulla base delle dichiarazioni della sola parte lesa, costituitasi parte civile ed attrice nel procedimento di separazione con addebito, in assenza di ulteriori riscontri.
In fatto si rileva che la sentenza individua solo tre episodi aggressivi, realizzati il primo nel 2003 e gli altri due nel corso del 2005, la cui segnalazione, anche ad opera del professionista che assisteva la donna, era sopraggiunta con anni di ritardo circostanze che, da un canto ponevano in crisi l’attendibilità del narrato e che, a tutto concedere, non consentivano l’inquadramento dei fatti nel paradigma normativo di cui all’art. 572 cod. pen.
Si contesta inoltre la ritenuta sussistenza del reato sul piano soggettivo, esclusa in relazione alle dinamiche familiari, fortemente condizionate dai problemi di natura depressiva della donna, che l’avevano spinta ad una totale mancanza di iniziativa e reattività, rispetto alla quale si erano verificate reazioni del marito che, lungi dall’essere animate da intento vessatorio, erano finalizzate a scatenare una reazione che tardava a rappresentarsi. Si rileva inoltre che il capo di imputazione non individua correttamente l’entità temporale dell’azione, omettendo di indicare specifici accadimenti dimostrativi della volontà di sopraffazione; in particolare, si allude a ripetute percosse senza collocare tali atti temporalmente, si parla di azione volta a screditare la moglie agli occhi dei figli che risulta smentita dall’escussione di questi, i quali hanno ricostruito i comportamenti provocatori dell’atteggiamento materno e descritto una condotta del padre non rientrante nella descrizione fornita dalla loro madre, circostanza che ha prodotto una lettura illogica da parte del primo giudice delle risultanze processuali.
Gli elementi acquisiti, comprensivi anche della consulenza disposta su istanza di parte, concordano nell’escludere il dolo di persecuzione nell’atteggiamento del ricorrente, imponendo di escludere l’affermazione di responsabilità per il reato contestato.
2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce violazione di legge in ordine alla valutazione delle prove, svolta in violazione delle norme di cui all’art. 192 cod. proc. pen., osservando che di fatto la Corte, partendo da un presupposto di assoluta attendibilità della teste d’accusa, che al contrario avrebbe dovuto essere sottoposta a rigorosa valutazione per l’interesse nutrito dalla donna, conferma la responsabilità dell’imputato addossandogli un onere di prova contraria opposto rispetto ai canoni valutativi stabiliti dalia legge, assumendo l’inidoneità delle prove addotte a superare la credibilità della teste d’accusa, omettendo di trarre le doverose conseguenze dalla mancanza di qualsiasi ulteriore altra prova a conferma i tre episodi dichiarati dalla parte offesa.
Si lamenta omessa valutazione della documentazione prodotta dalla difesa in appello, nonché mancata valorizzazione dell’intervenuto affidamento del figlio al padre, incompatibile con la pretesa natura violenta che emergerebbe dal processo, e la prosecuzione dell’atteggiamento vittimistico della donna, malgrado la completa esclusione della stessa da qualsiasi responsabilità familiare.
Considerato in diritto
1. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Deve ricordarsi che il delitto contestato presuppone l’accertamento di una condotta abituale, volta a creare una condizione di soggezione ed asservimento della persona di famiglia, finalità che deve essere consapevolmente avuta di mira dall’autore nello svolgimento di tale pratica sopraffattrice. In particolare, se pure non è richiesto il dolo specifico, la condotta rilevante deve essere caratterizzata nell’agente dalla coscienza e volontà di sottoporre la parte offesa ad uno stato di sottoposizione psicologica e di sofferenza.
Nella specie i giudici di merito hanno compiutamente tratteggiato la situazione di fatto in cui si era trovata costretta a vivere la famiglia a causa di una forma depressiva che ha colpito la parte lesa a seguito del parto, e dalla quale la donna non risulta mai essere uscita.
E’ del tutto pacifico, sulla base delle prove assunte, che la causa scatenante di tale patologia sia stata l’evento parto, cui è seguito un progressivo allontanamento della donna dalla realtà e la chiusura in sé stessa, che ha prodotto alterazione delle dinamiche familiari. Analogamente non vi è dubbio, sulla base delle prove assunte che risultano correttamente valutate dal giudice di merito, che il comportamento del marito sia frequentemente sfociato in comportamenti aggressivi, di natura materiale o morale, ma non risulta accertato specificamente nelle pronunce di merito se tale condotta sia stata generata da una reazione, sia pur impropria, volta a cercare di scuotere la moglie dal torpore e dalla mancanza di iniziativa ed interesse nella quale risulta essere stata relegata per effetto della patologia, o sia stata determinata dalla volontà di indurla In una situazione di costante soggezione.
Tale accertamento risulta imprescindibile, non solo per la doverosa considerazione degli effetti devastanti che la patologia depressiva può comunque produrre sulle dinamiche familiari del malato, ma soprattutto in ragione della stessa specifica contestazione formulata a carico del ricorrente, che individua le caratteristiche e finalità della condotta illecita a lui attribuita proprio nella creazione di una costante situazione di timore che avrebbe indotto l’interessata a sottoporsi alla psicoterapie, quale effetto di tali maltrattamenti, situazione di fatto, al contrario, non sufficientemente riscontrata nel concreto, che ben potrebbe essere diversamente correlata alla situazione patologica nella quale la M. si trovava a vivere, di cui entrambe le pronunce pur danno ampiamente conto.
L’accertamento è tanto più rilevante ove si consideri che conferma dell’effetto delle condotte prevaricatrici del ricorrente è stato ravvisato nelle condizioni di vita della donna, e nella sua situazione di disagio, omettendo di valutare, per converso quanto di tale effetto sia conseguenza della malattia depressiva, che sulla base delle deduzioni dei professionisti che l’hanno in cura, come evidenziate in sentenza, non risulta mai del tutto superata.
Ciò comporta un difetto di motivazione su un punto essenziale al fine dell’accertamento di responsabilità del reato contestato, caratterizzato dall’imposizione di un regime di vita vessatorio finalizzato a mortificare la personalità della vittima e ad ostacolare il naturale sviluppo della sua personalità, che permette di tipizzare il reato in esame, consentendo di differenziare la sua rilevanza giuridica rispetto al significato dei singoli comportamenti aggressivi, che, in difetto dell’abitualità correlata alla volontà prevaricatrice, devono essere inquadrati nei diversi delitti di lesione, ingiuria, e minacce.
Si impone conseguentemente l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata per nuova valutazione sul punto, che deve condursi sulla base delle prove già acquisite, non risultando sussistente in senso contrario la violazione di legge contestata con il secondo motivo di ricorso attinente alla valutazione delle prove, che sulla base delle argomentazioni esposte nella pronuncia impugnata, non risultano illegittimamente valutate, né risultano ignorati illegittimamente i documenti cui la difesa fa richiamo, poiché nel giudizio d’appello non risulta disposta la rinnovazione del dibattimento, strumento essenziale per eseguire un ampliamento del tema di indagine nel corso del giudizio di secondo grado.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bolzano.
Depositata in Cancelleria il 23.04.2012

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